Sebbene la "mediazione trasformativa" abbia origini che risalgono agli anni settanta del secolo scorso, il termine e l'approccio sono venuti alla ribalta solo a seguito della pubblicazione, nel 1994, del libro di Robert Baruch Bush e Joe Folger "The Promise of Mediation".
Questo libro contrappone due differenti approcci alla mediazione: problem solving e trasformativo.
Lo scopo del primo è quello di raggiungere un accordo reciprocamente accettabile che ponga fine alla lite contingente. In esso gioca spesso un ruolo determinante il mediatore.
L'approccio trasformativo alla mediazione, invece, non ricerca la risoluzione del problema immediato, ma piuttosto persegue il "potenziamento" e il "reciproco riconoscimento" delle parti coinvolte.
Potenziamento (empowerment), secondo Bush e Folger, significa rendere le parti capaci di definire da sé le questioni che le interessano e di cercare da sé le relative soluzioni. Riconoscimento (recognition) significa invece mettere le parti in grado di diventare consapevoli del punto di vista dell'altro e di capirlo; di comprendere come l'altro concepisce il problema e perché ricerchi una data soluzione (senza che ciò, si sottolinea, comporti l'essere d'accordo con quel punto di vista).
Spesso, empowerment e recognition preparano la strada per una soluzione reciprocamente accettabile, ma questo, per la mediazione trasformativa, è solo un effetto secondario.
Lo scopo principale della mediazione trasformativa rimane infatti quello di promuovere il potenziamento e il reciproco riconoscimento delle parti, mettendole così in grado di affrontare il loro problema corrente, così come i problemi successivi, con una visione più forte e al contempo più aperta. Nella mediazione trasformativa, la responsabilità in ordine ai risultati ricade direttamente sulle parti.
Tratto da: G. Briganti, Un nuovo approccio al diritto e alla professione legale: il "Comprehensive Law Movement", 2006
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