L'Avv.
Giuseppe Briganti è Avvocato in Urbino dal 2001 e mediatore
professionista e formatore nei corsi per mediatori dal 2011. Dal 2001
cura il sito www.iusreporter.it dedicato alla ricerca giuridica sul
Web e al diritto delle nuove tecnologie. Svolge attività di
docenza, è autore di pubblicazioni giuridiche e collabora con
riviste giuridiche
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Maksym Yemelyanov - Fotolia.com)
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Il Tribunale di Monza, con sentenza 2 marzo 2010, n. 770 ha condannato l'autore di messaggi offensivi pubblicati su Facebook al risarcimento dei danni causati.
Si legge nella sentenza:
La presente controversia, di indubbia peculiarità, trae le proprie origini dal rapporto instaurato tra le odierne parti per il tramite del sito web denominato "Facebook".
Trattasi, come è ormai notorio, di un c.d. social network ad accesso gratuito fondato nel 2004 da uno studente dell'Università di Harvard al quale, a far tempo dal settembre 2006, può partecipare chiunque abbia compiuto dodici anni di età: peraltro, se scopo iniziale di "Facebook" era il mantenimento dei contatti tra studenti di università e scuole superiori di tutto il mondo, in soli pochi anni ha assunto i connotati di una vera e proprie rete sociale destinata a coinvolgere, in modo trasversale, un numero indeterminato di utenti o di navigatori Internet.
Questi ultimi partecipano creando "profili" contenenti fotografie e liste di interessi personali, scambiando messaggi (privati o pubblici) e aderendo ad un gruppo di c.d. "amici" : quest'ultimo aspetto è rilevante, anche ai fini della presente decisione, in quanto la visione dei dati dettagliati del profilo di ogni singolo utente è di solito ristretta agli "amici" dallo stesso accettati.
"Facebook", come detto, include alcuni servizi tra i quali la possibilità per gli utenti di ricevere ed inviare messaggi e di scrivere sulla bacheca di altri utenti e consente di impostare l'accesso ai vari contenuti del proprio profilo attraverso una serie di "livelli" via via più ristretti e /o restrittivi ( dal livello "Tutti" a quello intermedio "Amici di amici" ai soli "Amici") per di più in modo selettivo quanto ai contenuti o alle stesse "categorie" di informazioni inserite nel profilo medesimo.
Quindi, agendo opportunamente sul livello e sulle impostazioni del proprio profilo, è possibile limitare l'accesso e la diffusione dei propri contenuti, sia dal punto di vista soggettivo che da quello oggettivo.
E' peraltro nota agli utenti di "Facebook" l'eventualità che altri possano in qualche modo individuare e riconoscere le tracce e le informazioni lasciate in un determinato momento sul sito, anche a prescindere dal loro consenso: trattasi dell'attività di c.d. "tagging" (tradotta in lingua italiana con l'uso del neologismo "taggare") che consente, ad esempio, di copiare messaggi e foto pubblicati in bacheca e nel profilo altrui oppure email e conversazioni in chat, che di fatto sottrae questo materiale dalla disponibilità dell'autore e sopravvive alla stessa sua eventuale cancellazione dal social network.
I gestori del sito (statunitensi, secondo la Polizia Postale), pur reputandosi proprietari dei contenuti pubblicati, declinano ogni responsabilità civile e/o penale ad essi relativa (come dimostra, eloquentemente, una recentissima e dibattuta controversia giudiziaria riguardante il motore di ricerca "Google").
In definitiva, coloro che decidono di diventare utenti di "Facebook" sono ben consci non solo delle grandi possibilità relazionali offerte dal sito, ma anche delle potenziali esondazioni dei contenuti che vi inseriscono : rischio in una certa misura indubbiamente accettato e consapevolmente vissuto...
... Come è noto, il danno non patrimoniale trae la propria specifica origine dall'art.2059 CC, alla luce del quale simile pregiudizio deve essere risarcito "solo nei casi determinati dalla legge": tale possibilità risarcitoria sembrava dunque limitata alle sole ipotesi di reato, così come previsto dall'art.185 CP. A seguito dell'intervento della Corte Costituzionale (sent. 30.6.2003 n.233) può ormai dirsi del tutto superata questa interpretazione limitativa, di talchè ogni lesione di valori di rilievo costituzionale inerenti la persona comporta il ristoro del danno non patrimoniale sofferto.
Qui va rimarcata la risarcibilità, attesi i limiti della domanda attrice, del solo danno morale soggettivo inteso quale "transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima" del fatto illecito, vale a dire come complesso delle sofferenze inferte alla danneggiata dall'evento dannoso, indipendentemente dalla sua rilevanza penalistica.
Rilevanza che, peraltro, ben potrebbe essere ravvisata nel fatto dedotto in giudizio, concretamente sussumibile nell'ambito della astratta previsione di cui all'art.594 CP (ingiuria) ovvero in quella più grave di cui all'art.595 CP (diffamazione) alla luce del cennato carattere pubblico del contesto che ebbe a ospitare il messaggio de quo, della sua conoscenza da parte di più persone e della possibile sua incontrollata diffusione a seguito di tagging...
Leggi la sentenza su www.personaedanno.it
Avv. Giuseppe Briganti
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Note legali. Quanto precede non costituisce né sostituisce una consulenza legale. Testi senza carattere di ufficialità
DECRETO LEGISLATIVO 15 marzo 2010 , n. 44
Attuazione della direttiva 2007/65/CE relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l'esercizio delle attivita' televisive.
GU n. 73 del 29-3-2010
Entrata in vigore del provvedimento: 30/03/2010
Ai sensi del provvedimento, per servizio di media audiovisivo, ai fini del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, s'intende:
1) un servizio, quale definito agli articoli 56 e 57 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, che e' sotto la responsabilita' editoriale di un fornitore di servizi media e il cui obiettivo principale e' la fornitura di programmi al fine di informare, intrattenere o istruire il grande pubblico, attraverso reti di comunicazioni elettroniche.
Per siffatto servizio di media audiovisivo si intende o la radiodiffusione televisiva, come definita dal d.lgs. 177/2005 e, in particolare, la televisione analogica e digitale, la trasmissione continua in diretta quale il live streaming, la trasmissione televisiva su Internet quale il webcasting e il video quasi su domanda quale il near video on demand, o un servizio di media audiovisivo a richiesta, come definito dal d.lgs. 177/2005.
Non rientrano nella definizione di "servizio di media audiovisivo":
i servizi prestati nell'esercizio di attivita' precipuamente non economiche e che non sono in concorrenza con la radiodiffusione televisiva, quali i siti Internet privati e i servizi consistenti nella fornitura o distribuzione di contenuti audiovisivi generati da utenti privati a fini di condivisione o di scambio nell'ambito di comunita' di interesse;
ogni forma di corrispondenza privata, compresi i messaggi di posta elettronica;
i servizi la cui finalita' principale non e' la fornitura di programmi;
i servizi nei quali il contenuto audiovisivo e' meramente incidentale e non ne costituisce la finalita' principale, quali, a titolo esemplificativo:
a) i siti internet che contengono elementi audiovisivi puramente accessori, come elementi grafici animati, brevi spot pubblicitari o informazioni relative a un prodotto o a un servizio non audiovisivo;
b) i giochi in linea;
c) i motori di ricerca;
d) le versioni elettroniche di quotidiani e riviste;
e) i servizi testuali autonomi;
f) i giochi d'azzardo con posta in denaro, ad esclusione delle trasmissioni dedicate a giochi d'azzardo e di fortuna; ovvero
2) una comunicazione commerciale audiovisiva;
Per fornitore di servizi di media s'intende invece la persona fisica o giuridica cui e' riconducibile la responsabilita' editoriale della scelta del contenuto audiovisivo del servizio di media audiovisivo e ne determina le modalita' di organizzazione;
sono escluse dalla definizione di "fornitore di servizi di media" le persone fisiche o giuridiche che si occupano unicamente della trasmissione di programmi per i quali la responsabilita' editoriale incombe a terzi.
Leggi il testo del decreto legislativo 44/2010
Avv. Giuseppe Briganti
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La Corte di giustizia dell'Unione europea, con la sentenza nei procedimenti riuniti da C-236/08 a C-238/08 del 23 marzo 2010, ha affermato che la società Google non ha violato il diritto dei marchi nel consentire agli inserzionisti l'acquisto di parole chiave corrispondenti ai marchi di impresa dei loro concorrenti.
Quanto agli inserzionisti, essi non possono, mediante tali parole chiave, far visualizzare da Google annunci che non consentano agli utenti di Internet di capire facilmente da quale impresa provengono i prodotti o i servizi a cui l'annuncio si riferisce.
La Corte è stata altresì interrogata sulla responsabilità di un operatore come la Google per i dati dei suoi clienti che esso memorizza sul suo server, concludendo che se risulta che il prestatore del servizio non ha svolto un ruolo attivo, tale prestatore non può essere ritenuto responsabile per i dati che egli ha memorizzato su richiesta di un inserzionista, salvo che, essendo venuto a conoscenza della natura illecita di tali dati o di attività di tale inserzionista, detto prestatore abbia omesso di prontamente rimuovere tali dati o disabilitare l'accesso agli stessi.
Il comunicato della Corte di giustizia dell'Unione europea del 23/03/2010:
Il diritto comunitario dei marchi 1 autorizza, a determinate condizioni, i titolari di marchi a vietare a terzi l'uso di segni identici o simili ai loro marchi per prodotti o servizi equivalenti a quelli per i quali essi sono registrati.
La Google gestisce un motore di ricerca su Internet. Quando un utente di Internet effettua una ricerca a partire da una o più parole chiave, il motore di ricerca visualizza, in ordine decrescente di pertinenza, i siti che sembrano meglio corrispondere a tali parole chiave. Si tratta dei risultati cosiddetti «naturali» della ricerca.
La Google propone inoltre un servizio di posizionamento a pagamento denominato «AdWords». Tale servizio consente a qualsiasi operatore economico di far apparire, mediante la selezione di una o più parole chiave - qualora tale o tali parole coincidano con quella o quelle contenute nella richiesta indirizzata da un utente di Internet al motore di ricerca - un link pubblicitario verso il suo sito, accompagnato da un messaggio pubblicitario. Tale annuncio appare nella rubrica «link sponsorizzati», visualizzata sia sul lato destro dello schermo (a destra dei risultati naturali) sia nella parte superiore dello schermo (al di sopra di tali risultati).
La società Vuitton, titolare del marchio comunitario «Vuitton» e dei marchi nazionali francesi «Louis Vuitton» e «LV», la società Viaticum, titolare dei marchi francesi «Bourse des Vols», «Bourse des Voyages» e «BDV», nonché il sig. Thonet, titolare del marchio francese «Eurochallenges», hanno constatato che, utilizzando il motore di ricerca della Google, l'inserimento dei termini costituenti tali marchi faceva apparire, nella rubrica «link sponsorizzati», alcuni link verso, rispettivamente, siti che offrivano imitazioni di prodotti della Vuitton e siti di concorrenti della Viaticum e del Centre national de recherche en relations humaines. Essi hanno pertanto citato in giudizio la Google al fine di far dichiarare che quest'ultima aveva arrecato pregiudizio ai loro marchi.
La Cour de cassation (Corte di cassazione francese), giudicando in ultima istanza nei procedimenti avviati dai titolari dei marchi contro la Google, ha interrogato la Corte di giustizia in merito alla liceità dell'impiego, quali parole chiave nell'ambito di un servizio di posizionamento su Internet, di segni corrispondenti a marchi di impresa, senza che i titolari di questi ultimi abbiano prestato il loro consenso.
L'impiego di parole chiave corrispondenti a marchi altrui nell'ambito di un servizio di posizionamento su Internet
La Corte osserva che, acquistando il servizio di posizionamento e scegliendo come parola chiave un segno corrispondente a un marchio altrui, al fine di offrire agli utenti di Internet un'alternativa rispetto ai prodotti o ai servizi del titolare del marchio stesso, l'inserzionista utilizza tale segno per i propri prodotti o servizi. Non è però così nel caso di chi offre il servizio di posizionamento che consente agli inserzionisti di selezionare, quali parole chiave, segni identici a marchi, memorizza tali segni e visualizza a partire da questi ultimi gli annunci dei propri clienti.
La Corte precisa che si tratta di uso da parte di un terzo di un segno identico o simile al marchio del titolare quando, quanto meno, quest'ultimo utilizza il segno nell'ambito della propria comunicazione commerciale. Il prestatore del servizio di posizionamento invece, consente ai propri clienti (gli inserzionisti), di usare segni identici o simili a marchi, senza però fare egli stesso uso di detti segni.
Se un marchio è stato utilizzato come parola chiave, il suo titolare non può pertanto far valere nei confronti della Google il diritto esclusivo che egli trae dal suo marchio. Egli può invece far valere tale diritto nei confronti degli inserzionisti che, mediante una parola chiave corrispondente al suo marchio, fanno visualizzare dalla Google annunci che non consentono, o consentono soltanto difficilmente, all'utente medio di Internet di sapere da quale impresa provengono i prodotti o servizi indicati nell'annuncio.
Infatti, in una situazione del genere - caratterizzata dal fatto che l'annuncio appare subito dopo che l'utente ha inserito il marchio quale parola da ricercare e è visualizzato in un momento in cui il marchio, in qualità di parola da ricercare, è parimenti indicato sullo schermo - l'utente di Internet può confondersi sull'origine dei prodotti o dei servizi. Sussiste pertanto una violazione della funzione del marchio che consiste nel garantire ai consumatori la provenienza del prodotto o del servizio (la «funzione di indicazione di origine» del marchio).
Spetta al giudice nazionale accertare, caso per caso, se i fatti della controversia sottopostagli siano caratterizzati da tale violazione - o dal rischio della violazione - della funzione di indicazione di origine.
Per quanto attiene all'uso, da parte degli inserzionisti su Internet, del segno corrispondente al marchio altrui quale parola chiave ai fini della visualizzazione di messaggi pubblicitari, la Corte ritiene altresì che tale uso possa produrre alcune ripercussioni sull'utilizzo a fini pubblicitari di detto marchio da parte del suo titolare nonché sulla strategia commerciale di quest'ultimo. Tuttavia, tali ripercussioni dell'uso del segno identico al marchio da parte di terzi non costituiscono di per sé una violazione della «funzione di pubblicità» del marchio.
La responsabilità del prestatore del servizio di posizionamento
La Corte è stata altresì interrogata sulla responsabilità di un operatore come la Google per i dati dei suoi clienti che esso memorizza sul suo server.
Le questioni di responsabilità sono disciplinate dal diritto nazionale. Il diritto dell'Unione prevede tuttavia alcune limitazioni della responsabilità a favore di prestatori intermediari di servizi della società dell'informazione 2.
In merito alla questione se un servizio di posizionamento su Internet quale «AdWords» costituisca un servizio della società dell'informazione consistente nella memorizzazione delle informazioni fornite dall'inserzionista e se, pertanto, il prestatore del servizio di posizionamento benefici di una limitazione della responsabilità, la Corte osserva che spetta al giudice del rinvio esaminare se il ruolo svolto da detto prestatore sia neutro, in quanto il suo comportamento è meramente tecnico, automatico e passivo, comportante una mancanza di conoscenza o di controllo dei dati che esso memorizza.
Se risulta che egli non ha svolto un ruolo attivo, tale prestatore non può essere ritenuto responsabile per i dati che egli ha memorizzato su richiesta di un inserzionista, salvo che, essendo venuto a conoscenza della natura illecita di tali dati o di attività di tale inserzionista, egli abbia omesso di prontamente rimuovere tali dati o disabilitare l'accesso agli stessi.
1 Prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d'impresa (GU 1989, L 40, pag. 1); regolamento (CE) del Consiglio 20 dicembre 1993, n. 40/94, sul marchio comunitario (GU 1994, L 11, pag. 1).
2 Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 8 giugno 2000, 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell'informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («Direttiva sul commercio elettronico») (GU L 178, pag. 1).
Il testo integrale della sentenza è pubblicato sul sito CURIA
Fonte: www.curia.europa.eu
A cura dell'Avvocato Giuseppe Briganti, avvbriganti.iusreporter.it
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Come ormai noto, è stato approvato in data primo marzo 2010 il discusso Decreto Romani, ossia, secondo il comunicato del Governo, "un decreto legislativo che recepisce la direttiva 2007/65 in materia di esercizio di attività televisiva, il cui obiettivo è creare un quadro moderno, flessibile e semplificato per i contenuti audiovisivi, anche attraverso una nuova definizione dei servizi di media audiovisivi, svincolata dalle tecniche di trasmissione".
L'art. 4 del provvedimento (non ancora pubblicato in GU) fornisce oggi la seguente definizione di "servizio di media audiovisivo":
"1) un servizio, quale definito agli articoli 56 e 57 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, che è sotto
la responsabilità editoriale di un fornitore di servizi media e il cui obiettivo principale è la fornitura di programmi
al fine di informare, intrattenere o istruire il grande pubblico, attraverso reti di comunicazioni elettroniche . Per
siffatto servizio di media audiovisivo si intende o la radiodiffusione televisiva, come definita alla lettera i) del
presente articolo e, in particolare, la televisione analogica e digitale, la trasmissione continua in diretta quale il
lave streaming, la trasmissione televisiva s u Internet quale il webcasting e il video quasi su domanda quale il
near video on demand, o un servizio di media audiovisivo a richiesta, come definito dalla lettera m) del presente
articolo".
Sempre secondo il citato art. 4 non rientrano nella definizione di "servizio di media audiovisivo":
"- i servizi prestati nell'esercizio di attività precipuamente non economiche e che non sono in concorrenza con la
radiodiffusione televisiva, quali i siti Internet privati e i servizi consistenti nella fornitura o distribuzione di
contenuti audiovisivi generati da utenti privati a fini di condivisione o di scambio nell'ambito di comunità di
interesse;
- ogni forma di corrispondenza privata, compresi i messaggi di posta elettronica;
- i servizi la cui finalità principale non è la fornitura di programmi;
- i servizi nei quali il contenuto audiovisivo è meramente incidentale e non ne costituisce la finalità principale,
quali, a titolo esemplificativo :
a) i siti internet che contengono elementi audiovisivi puramente accessori, come elementi grafici animati, brevi
spot pubblicitari o informazioni relative a un prodotto o a un
servizio non audiovisivo ;
b) i giochi in linea;
c) i motori di ricerca
d) le versioni elettroniche di quotidiani e riviste;
e) i servizi testuali autonomi;
f) i giochi d'azzardo con posta in denaro, ad esclusione delle trasmissioni dedicate a giochi d'azzardo e di
fortuna ; ovvero
2) una comunicazione commerciale audiovisiva".
Per "fornitore di servizi di media", secondo la disposizione citata, deve intendersi
"la persona fisica o giuridica cui è riconducibile la responsabilità editoriale della scelta del contenuto audiovisivo del servizio di media audiovisivo e ne determina le modalità di organizzazione ; sono escluse
dalla definizione di 'fornitore di servizi di media' le persone fisiche o giuridiche che si occupano unicamente della trasmissione di programmi per i quali la responsabilità editoriale incombe a terzi".
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